“Basso costo dei prodotti, alto costo ambientale”. Intervista a Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento Greenpeace Italia.
Nonostante emergano sempre più dati sui devastanti impatti ambientali dell’insostenibile fast fashion, purtroppo la moda usa e getta a basso costo continua a crescere.
Una delle cause è legata all’introduzione di modelli di business insostenibili, come quello dell’ultra fast fashion di Shein, tra le app di moda più scaricate d’Europa e Temu, l’e-commerce cinese di cui non avevamo assolutamente bisogno.
Inoltre, come rivela il rapporto “Taking the Shine off SHEIN: A business model based on hazardous chemicals and environmental destruction” diffuso dall’organizzazione ambientalista Greenpeace, gli abiti del marchio Shein sono “inquinati da sostanze chimiche pericolose e oltre i limiti UE”.
L’inchiesta è stata citata anche da Antoine Vermorel Marques, deputato francese del partito Repubblicano, che in un video pubblicato su Instagram e TikTok ha parlato proprio del brand Shein.
Ma cosa si nasconde dietro il successo di queste aziende? Chi paga realmente il basso costo degli abiti in vendita? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento Greenpeace Italia.
“Shein da anni è noto per i suoi costi sociali, per la sua filiera produttiva che ci restituisce prodotti a prezzi davvero irrisori e dal massiccio uso di sostanze chimiche, come abbiamo indicato in un rapporto di Greenpeace. – afferma a TeleAmbiente Giuseppe Ungherese – Per il competitor Temu, abbiamo scoperto che i capi arrivano in Italia direttamente dalla Cina via aerea, impiegando pochi giorni per essere spediti. Ogni pacchetto percorre, solo nel viaggio di andata, circa 10mila km, con un equivalente impatto in termini di CO2. Basso costo dei prodotti, alto costo ambientale”.
I parlamentari francesi hanno presentato un disegno di legge volto a imporre sanzioni finanziarie significative a marchi come Shein, noti proprio per il loro rapido turnover delle collezioni di abbigliamento.
Dove finiscono i nostri abiti usati?
In Ghana troviamo la più grande discarica al mondo di abiti di seconda mano. Il paese conta oltre 31 milioni di abitanti e importa ogni settimana circa 15 milioni di abiti usati.
Il deserto Atacama in Cile è ricoperto da almeno 39mila tonnellate di vestiti. Da diversi anni, infatti, il paese sudamericano è diventato il polo internazionale dove confluiscono l’abbigliamento invenduto, gli scarti di produzione e i vestiti di seconda mano prodotti in Cina e Bangladesh.
Ma come ci arrivano i nostri abiti in Ghana e in Cile? “Il modello del fast fashion, messo in atto dai colossi cinesi, è un sistema vorace. – afferma Giuseppe Ungherese – C’è una totale assenza di circolarità. Oggi solo il 3% di tutto il sistema moda-tessile è circolare, e solo l’1% dei capi viene prodotto da vecchi vestiti. Questo sistema, che produce grandi quantità di abbigliamento, genera enormi quantità di spazzatura che arriva nei Paesi in via di sviluppo. I nostri abiti usati vengono acquistati a valle, contenuti di 10kg, ma quasi a scatola chiusa. Scoprono solo dopo che si tratta di vestiti di bassissima qualità che non possono essere riutilizzati“.
Per rallentare il fenomeno della fast fashion, sarebbe sufficiente che ognuno di noi si soffermasse qualche istante in più a riflettere prima di acquistare indumenti che indosserà poi per pochissimo tempo.