Shein, scoperti casi di lavoro minorile. A dichiararlo stavolta è lo stesso colosso del fast fashion

“I casi sono stati risolti rapidamente”, afferma il brand. Ma Shein è già nota da tempo per essere finita al centro di inchieste sulle condizioni dei lavoratori.

Shein ha dichiarato di aver riscontrato due casi di lavoro minorile nella sua catena di fornitori nel 2023. A riportarlo un articolo pubblicato dalla BBC.

Il colosso cinese del fast fashion ha pubblicato il suo rapporto sulla sostenibilità e sull’impatto sociale, confermando le preoccupazioni dei legislatori americani riguardo alle violazioni del lavoro da parte dei fornitori cinesi dell’azienda. Il brand ha dichiarato di aver sospeso gli ordini dai fornitori coinvolti, specificando che ci saranno regole più severe sul fatto che  qualsiasi caso di lavoro minorile o forzato costituisca motivo per l’immediata cancellazione dei contratti.

“I casi sono stati risolti rapidamente, con misure correttive che hanno incluso la risoluzione dei contratti con i dipendenti minorenni, la garanzia del pagamento degli stipendi arretrati, l’organizzazione di visite mediche e la facilitazione del rimpatrio dai genitori/tutori legali, se necessario. Dopo un’adeguata risoluzione, ai fornitori è stato consentito di riprendere l’attività“, ha dichiarato Shein.

Una mossa che coincide con il suo prossimo debutto sul mercato alla Borsa di Londra e il governo del Regno Unito sembrerebbe favorevole alla quotazione in quanto aiuterebbe a rilanciare i mercati londinesi in difficoltà.

Shein, fondata in Cina e ora con sede a Singapore, è già nota per essere finita al centro di inchieste sulle condizioni dei lavoratori, pagati pochissimo e costretti a turni di lavoro sfiancanti: operai che cuciono vestiti anche per più di dodici ore al giorno, per sei o sette giorni a settimana, e solo un giorno libero al mese (inchiesta pubblicata dall’organizzazione svizzera Public Eye).

 

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da TeleAmbiente (@teleambiente)

Il modello di business insostenibile di Shein

Abiti di scarsa qualità, basso prezzo, con durata limitata nel tempo, che invogliano così i consumatori ad acquistarne di nuovi. Si basa su questo la politica del gigante del fast fashion, Shein, e proprio su questo, purtroppo, si fonda la chiave del suo successo a tal punto da intasare il settore globale del trasporto aereo di merci.

Secondo un’indagine condotta da Greenpeace Germania su 47 prodotti Shein acquistati in Italia, Austria, Germania, Spagna e Svizzera, “il 15% hanno fatto registrare, nelle analisi di laboratorio, quantità di sostanze chimiche pericolose superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee”.

In altri quindici prodotti (32%) le concentrazioni di queste sostanze si sono attestate a livelli preoccupanti, “a dimostrazione del disinteresse di Shein nei confronti dei rischi ambientali e per la salute umana“, si legge nel rapporto. Questi prodotti sono da considerarsi illegali a tutti gli effetti.

A pagare il prezzo più alto della dipendenza chimica di Shein sono proprio i lavoratori che operano nelle filiere produttive del colosso cinese, sono esposti a seri rischi sanitari, oltre alle popolazioni che vivono in prossimità dei siti produttivi.

 

L’Ue pronta a bloccare l’invasione dello shopping online cinese

Ma cosa si può fare per fermare l’ascesa del fast fashion?
Imporre dazi doganali sui beni a basso costo acquistati da rivenditori online cinesi, tra cui Shein, Temu e AliExpress. 

La Commissione europea intende eliminare la soglia attuale di 150 euro al di sotto della quale gli articoli possono essere acquistati in esenzione doganale. Altra ipotesi quella di rendere obbligatoria per le grandi piattaforme la registrazione per il pagamento dell’Iva online, indipendentemente dal loro valore. Dal 2021, sui pacchi inviati alle aziende Ue viene già applicata l’Iva indipendentemente dal loro valore, ma sono esenti da dazi.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da TeleAmbiente (@teleambiente)

Abiti low cost, come vengono prodotti?

Cosa significa davvero sostenibilità della moda e perché è così difficile da realizzarsi? Quando scegliamo un capo di abbigliamento ci domandiamo “chi ha realizzato i miei vestiti?”

A rispondere a queste domande in uno speciale di TeleAmbiente, Matteo Ward, cofondatore di WRÅD, attivista e imprenditore che si batte per rendere sostenibile il settore della moda e far conoscere il costo sociale e ambientale dell’industria del fast fashion in tutto il mondo.

La docu-serie “Junk-Armadi pieni”, coprodotta da Will Media e Sky Italia, vede Matteo protagonista di viaggio nel mondo del fast fashion, dal Ghana al Cile, all’Indonesia, Bangladesh, India e Italia, un progetto nato per generare consapevolezza sull’impatto ambientale della moda.