Il 24 aprile 2013 “una catastrofe prevedibile e prevenibile”. La tragedia del Rana Plaza in Bangladesh.
Sono passati 11 anni dal crollo del Rana Plaza, a Dacca, in Bangladesh, la più grave tragedia del mondo della moda che ha causato oltre mille vittime tra i lavoratori del settore.
Il Rana Plaza non è stato il primo e nemmeno l’ultimo disastro che ha colpito una fabbrica di abbigliamento ma, sicuramente, visto l’alto numero delle vittime, ha fatto emergere tutti i problemi che caratterizzavano e, in parte, ancora caratterizzano i fornitori localizzati in quel territorio.
L’elevato numero di vittime del crollo, infatti, secondo la Campagna Abiti Puliti, sarebbe dovuta non solo alla mancanza di misure di sicurezza, ma anche ai salari bassi e alla mancanza di una rappresentanza sindacale, tutti fattori che hanno esercitato una coercizione indiretta sui lavoratori costringendoli a recarsi nelle fabbriche nonostante il rischio crollo.
“Mentre i negozi al piano terra sono rimasti vuoti quel giorno, le fabbriche si sono rifiutate di fermarsi e hanno costretto i lavoratori e le lavoratrici a entrare con la minaccia di trattenere i salari. Lottando per sopravvivere con paghe da fame e senza un sindacato che difendesse collettivamente i loro diritti, la maggior parte di loro è entrata in fabbrica -ricorda Abiti Puliti-. Una catastrofe prevedibile e prevenibile. I marchi erano a conoscenza della pericolosità degli edifici a più piani in tutto il Bangladesh, ma non sono mai intervenuti”.
Molto è stato fatto da allora sul fronte della messa in sicurezza delle fabbriche e sulle tutele dei lavoratori anche se la strada è ancora molto lunga.
Il 15 maggio del 2013 è stato siglato l’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh per fare il punto sulle misure da adottare per tutelare i lavoratori e per la messa in sicurezza delle fabbriche. Nel 2021 questa intesa si è trasformata nell’International Accord, di cui fanno parte 210 marchi della moda.
L’accordo ha portato a più di 56.000 ispezioni indipendenti nelle fabbriche dei fornitori, oltre 140.000 problemi di sicurezza sono stati risolti e 2 milioni di lavoratori hanno ricevuto una formazione in materia di salute e sicurezza.
“Questo accordo e quelli successivi sono il motivo per cui il Bangladesh, che prima del 2013 registrava spesso numerose vittime nelle fabbriche tessili, non ha più vissuto disastri simili -riporta Abiti Puliti – Miglioramenti che vanno dall’installazione di attrezzature antincendio alla rimozione dei lucchetti alle porte, fino a ristrutturazioni su larga scala di edifici insicuri, oltre alla formazione dei lavoratori sul tema della sicurezza e a un meccanismo di reclamo, hanno portato un cambiamento concreto, soprattutto nei primi sette anni di applicazione dell’Accordo, prima, cioè, che i datori di lavoro iniziassero a esercitare un’influenza indebita sul programma”.
Yesterday, together with @eccjorg we commemorated the 1,138 workers killed in the Rana Plaza collapse 11 years ago in front of the EU Parliament in Strasbourg. We called upon MEPs to finally ensure brands are held legally accountable for their supply chains. #RanaPlazaNeverAgain pic.twitter.com/YhU6jBEUfn
— Clean Clothes Campaign (@cleanclothes) April 24, 2024
Fast fashion e sfruttamento dei lavoratori
Il sistema della fast fashion, ovvero la cosiddetta “moda veloce”, si basa sulla produzione “veloce” di abiti a basso prezzo, contribuendo a rendere l’industria della moda una tra le più inquinanti al mondo. E non solo.
Ma chi paga realmente il prezzo della fast fashion? Centinaia di migliaia di lavoratori sfruttati, sottopagati, maltratti e disumanizzati, persone, spesso donne e ragazze, esposte ogni giorno a un ambiente di lavoro non sicuro con un’alta incidenza di incidenti, decessi e di patologie. Tra i marchi di fast fashion maggiormente coinvolti nella tragedia c’era anche il colosso svedese H&M.
Valeria Mangani, presidente Sustainable Fashion Innovation Society, ha spiegato in un’intervista rilasciata per TeleAmbiente, cosa è davvero cambiato dopo 11 anni da quella strage. Guarda QUI.
Ecco perché l’industria della moda oggi più che mai deve avviare un percorso volto a tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, processi produttivi trasparenti, una produzione di abiti fondata sull’economia circolare. Una moda sostenibile, etica che tuteli il nostro Pianeta.