A Perugia è andato in scena Seed, il festival dove cultura del progetto e scienze umanistiche si incontrano per discutere sul futuro. 4 giorni in cui artisti, scienziati, filosofi, accademici, psicologici, imprenditori e studenti, si sono confrontati sulle sfide e sulle opportunità che ci attendono.
In Umbria, nel centro storico di Perugia nella suggestiva location di San Francesco al Prato si è svolta la terza edizione di Seed – Design actions for the future, il festival internazionale dedicato all’incontro tra arti, saperi e discipline, per costruire oggi il futuro del nostro pianeta.
Un festival dall’anima interdisciplinare che spazia tra fisica, scienza, geopolitica, architettura e type design.
Con le telecamere di Teleambiente eravamo lì ed abbiamo seguito alcuni interventi della kermesse.
La mission e lo spirito dell’iniziativa, ai nostri microfoni, è stata illustrata da Barbara Cadeddu, uno degli organizzatori del festival
“Questo – ha spiegato Barbara Cadeddu – è un festival che ha invitato scienziati, filosofi, storici, detentori di tante discipline per parlare in maniera trasversale, transdisciplinare e aperta a tutti e a tutte, dal punto di vista del linguaggio dei temi più importanti per il futuro del nostro pianeta”.
Obiettivo
“Come dice il nome, Seed – ha aggiunto Cadeddu – vorrebbe seminare dei semi di pensiero, da raccogliere nei prossimi anni per attivare dei ragionamenti, per affrontare le crisi che caratterizzano questo periodo”.
Un festival che negli anni è diventato sempre più importante, sempre più internazionale, sta coinvolgendo esperti da tutto il mondo.
“Un consiglio per i giovani architetti – ha continuato l’organizzatrice- è essere curiosi, viaggiare e sognare”.
Tanti gli ospiti ed i relatori intervenuti in questa 4 giorni perugina.
Tra gli approfondimenti, quello dell’architetto Amedeo Schiattarella della Schiattarella Associati, ha posto l’accento sull’importanza dell’intervento architettonico basato sul valore e sull’identità del luogo in cui si opera
Differenza tra il concetto di sostenibilità e compatibilità.
“In questo momento – ha detto Amedeo Schiattarella – naturalmente c’è, giustamente e responsabilmente, una grande attenzione alla tutela dei valori dell’ambiente e alla
salvaguardia della natura, questo è un dato assolutamente irrinunciabile. Il problema è che nel frattempo stiamo cancellando la memoria dei luoghi, stiamo cancellando il valore della diversità dei singoli paesi, delle culture”.
“Noi – ha ricordato Schiattarella – abbiamo uno straordinario patrimonio e anche percorsi infiniti che l’uomo ha fatto nei propri territori per giungere ai giorni nostri con logiche e con espressioni totalmente differenti. Oggi, se uno va nelle periferie delle grandi città del mondo, si trova nello stesso posto, un luogo senza nessuna identità che in qualche modo è omologato, nei suoi comportamenti, nella sua immagine. Un luogo che finisce per cancellare un patrimonio che è irrinunciabile per l’umanità”.
Un festival dedicato proprio a cosa possiamo fare per cambiare il futuro
“Ci deve essere – ha proseguito Amedeo Schiattarella – una scelta di fondo politica che è quasi inimmaginabile. Noi come architetti possiamo fare qualcosa, perché poi in realtà i progetti passano da noi. Possiamo assumerci le nostre responsabilità, capire che noi operiamo non, nell’interesse esclusivo del cliente, del committente, oppure nel nostro interesse, quando facciamo dei monumenti a noi stessi, ma operiamo negli interessi una comunità di una collettività, con risultati che vanno ad incidere profondamente, non solo sul presente, ma sul futuro, di quella che sarà l’umanità. Lì noi possiamo in qualche modo assumerci le nostre responsabilità e dare risposte che siano compatibili”.
L’architettura è compatibile con il contesto?
“Spesso lo è – ha tranquillizzato l’architetto Schiattarella – la consumazione di suolo è sicuramente uno dei problemi. Adesso si parla di rigenerazione urbana e ben venga, naturalmente l’espansione della popolazione porterà sempre questi problemi.
Bisogna farla con attenzione, quando si opera, in luoghi che hanno una loro identità ed una loro personalità, una presenza”.
“Noi – ha concluso Amedeo Schiattarella – dobbiamo intervenire con lo spirito del gioielliere che incastona una gemma in un anello, non con la ruspa, con la dinamite: questo è un po’ il lavoro che noi dobbiamo fare”.
Pieno di molti spunti di riflessione è stato anche il panel, curato da Marco Rainò e Barbara Brondi, architetti, designer e curatori dello studio BRH+ di Torino.
Si è parlato del concetto di equilibrio legato ad una lettura del mondo non dualistica, ad una realtà molto più permeabile di quello che pensiamo, ad una realtà che esiste in base al contesto, a quello che c’è intorno. Ogni progetto ha senso, se messo in relazione con tutto il resto.
Ricorda un po’ anche “l‘uomo misura di tutte le cose”, un concetto filosofico che purtroppo ad oggi è andato un po’ perso.
“In realtà – ha sottolineato Marco Rainò – noi abbiamo parlato di equilibrio, parlando di disequilibrio, facendo dei riferimenti. La nostra interpretazione del tema dato da Seed, bellissimo, molto stimolante, di questa edizione. Abbiamo parlato di equilibrio dinamico, di un equilibrio che non è statico, che non è inquadrato in maniera ideale, attraverso una modalità ferma, ma che invece è in chiave dinamica”.
“Pensiamo – ha commentato Rainò – che la professione che facciamo, quella di progettisti, debba confrontarsi continuamente con la realtà in transito, in mutazione, in divenire e quindi gli equilibri non possono che essere dinamici”.
Difficoltà ad uscire dal dualismo
“Noi – ha evidenziato sempre a Teleambiente Barbara Brondi – siamo esseri umani che cerchiamo sempre di definire tutto quello con cui veniamo in contatto.
La definizione è mettere delle etichette che ci aiutano a riconoscere le cose.
In realtà è un modo per facilitarci a vivere, ma non è l’unico modo, anzi bisognerebbe uscire da questa abitudine di mettere delle etichette, dividere tutto in un atteggiamento binario per riuscire invece a vedere che c’è maggiore complessità, che tutto è in relazione”.
“Queste relazioni – ha chiosato Brondi – formano e danno caratteristiche sia agli oggetti che alla persona”.
Un esempio di relazione con il territorio è il progetto della Cascina in Piemonte, lì c’è anche un recupero di materiali del territorio, una sorta di bioedilizia.
“Il progetto che abbiamo presentato – ha riferito ancora Marco Rainò a Teleambiente – è una cantina vitivinicola, stiamo parlando di una cantina che produce vino organico, vino naturale che si confronta appunto con il territorio anche lui, in una maniera diversa, dagli equilibri tradizionali di vinificazione”.
“Ed è un progetto che, crediamo – ha continuato Rainò – abbia molto a che fare con l’idea di orientare una soglia, di varcare una soglia tra l’architettura che si produce, il nuovo che si produce nel paesaggio, e il paesaggio stesso, inteso come ambiente antropizzato, ma anche come natura”.
“Siamo in alta langa – ha specificato Marco Rainò – è un paesaggio molto stratificato, anche antropizzato, ma di straordinario, valore ambientale e culturale.
Abbiamo cercato di muoverci con grande delicatezza e nel nostro disequilibrio, nel disequilibrio dinamico a cui facevo riferimento in precedenza, abbiamo cercato di produrre un’architettura porosa, aperta, luminosa per quanto possibile, ma anche chiusa per quanto necessario in termini di produzione”.
“Un’architettura – ha ribadito – che sfruttasse un principio di relazione con i territori non in camouflage con i territori, ma interpretandolo anche in chiave simbolica. La terra cotta di cui è rivestito tutto l’edificio, è una terra cotta ricavata, anche realizzata, con delle terre locali, ma non solo dei materiali naturali, c’è la possibilità, in potenza, di dismettere a ciclo vita questa architettura secondo dei principi di smontaggio che possano essere, nei limiti del possibile, semplici. C’è anche una relazione con il territorio fatta dal progetto che non riguarda solo i corpi statici, inerti, dell’architettura, ma riguarda anche i flussi e le dinamiche di produzione e quindi la vita produttiva che avviene all’interno dell’azienda e quindi, di quella architettura”.
In Italia nonostante i benefici derivanti dall’ inserire questo tipo di opere nell’ambiente, c’è un po’ di reticenza nel portare avanti anche questi concetti.
“Gli architetti – ha affermato Barbara Brondi – hanno una caratteristica, cioè quella di avere una individualità molto forte, quando noi dobbiamo esprimere, attraverso un linguaggio, tutto quello che è il nostro bagaglio culturale, dobbiamo comunque dare un’identificazione e quindi con le opere che l’architetto va a realizzare si traduce tutto questo”.
“E quindi a volte – ha rimarcato in chiusura la Brondi – questa personalità molto forte, produce degli oggetti che sono poco in relazione, che considerano poco quello che è il contorno ed è per questo che noi nella nostra ricerca, e anche nel lavoro che facciamo di formazione delle giovani generazioni, poniamo molto l’attenzione sul fatto che bisogna invece andare a distruggere le proprie credenze, portarsi in una situazione di non-confort, andare a capire distruggendo, ma per ricostruire come davvero si è fatti e come davvero siamo in relazione al contesto”.