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I prodotti Pepsi e Coca Cola contengono sfruttamento del lavoro e isterectomie, lo svela un’inchiesta del NYT

I prodotti Pepsi e Coca Cola contengono sfruttamento del lavoro e isterectomie, lo svela un'inchiesta del NYT

Un’inchiesta del New York Times e del Fuller Project svela le condizioni di lavoro in una regione dell’India che produce zucchero anche per i colossi PepsiCo. e Coca Cola.

Lavorare in condizioni disumane, senza la possibilità di guadagnare soldi e di prendersi cura della propria salute. Anzi, per lavorare si viene privati della possibilità di scegliere se avere figli, dei propri organi. È questa la realtà di donne e bambine legate all’industria dello zucchero in India, più precisamente nello Stato del Maharashtra.

A trarre profitto da un sistema brutale che sfrutta il lavoro minorile e spinge le donne in età lavorativa alla sterilizzazione non necessaria ci sono anche i colossi Pepsi e Coca-Cola. Un meccanismo in cui viene incoraggiata anche la pratica delle spose bambine, così che possano lavorare insieme ai mariti tagliando e raccogliendo canna da zucchero destinata alle bevande zuccherate (e non solo) che riempiono gli scaffali dei supermercati.

Il lato oscuro delle multinazionali lo ha scoperto un’inchiesta del New York Times e del Fuller Project, svelando gli orrori che riguardano il mercato dello zucchero di cui l’India è il secondo produttore mondiale.

Le donne sono intrappolate in contratti che prevedono multe se si assentano dal lavoro, persino per andare dal medico, e invece di ricevere uno stipendio lavorano per restituire le somme anticipate dai datori di lavoro. Un circolo vizioso che culmina con l’isterectomia. I sensali che procurano l’impiego alle donne gli prestano i soldi per l’operazione, così da risolvere disturbi come la dismenorrea che creerebbero difficoltà alle giovani in una condizione lavorativa senza acqua corrente, bagni o riparo.

 

Il lato oscuro del mercato dello zucchero, la replica delle aziende

Chi produce e compra zucchero è a conoscenza da anni di questi abusi, che l’ONU e i gruppi di tutela dei diritti dei lavoratori hanno definito “lavoro forzato”. Come si legge su Repubblica, che ha riportato la notizia, lo zucchero del Maharashtra è usato da più di un decennio come dolcificante nelle lattine di Coca e Pepsi.

Quest’ultima, dopo la scoperta fatta dal New York Times, ha confermato che uno dei sui maggiori franchise acquista lo zucchero dallo Stato indiano. Anche Coca-Cola che ha una nuova fabbrica in costruzione nel Maharashtra ha detto di acquistare lì lo zucchero.

Entrambe le multinazionali hanno pubblicato delle policy che vietano a fornitori e partner commerciali di usare lavoro minorile e forzato. “La descrizione delle condizioni di lavoro dei tagliatori di canna da zucchero in Maharashtra è profondamente preoccupante”, ha dichiarato PepsiCo.

Lo scarico di responsabilità però continua e nella regione rurale di Beed, nel Maharashtra, secondo un rapporto del governo locale che ha intervistato circa 82mila lavoratrici, è emerso che una donna su cinque aveva subito un’isterectomia. Nonostante i dati e le indagini da parte dei media la situazione di sfruttamento continua e le grandi aziende delegano la supervisione delle catene di approvvigionamento ai loro fornitori. Questi appaltano ad altri il reclutamento dei lavoratori ed è agli appaltatori che viene data la responsabilità degli abusi. Nessuno spinge le donne ad operarsi, ma spesso le donne sono poco istruite e non hanno altre alternative. “Non potevo permettermi di perdere lavoro per andare dal medico”, ha spiegato la lavoratrice trentenne Savita Dayanand Landge.

È sicuramente doloroso pensare alle condizioni terribili in cui versano molti esseri umani – soprattutto donne e bambini – che lavorano per produrre le materie prime della maggior parte di cibi, oggetti e indumenti che utilizziamo quotidianamente. Forse però è arrivato il momento di riflettere qualche secondo in più prima di acquistare certi prodotti, sia per le conseguenze sull’ambiente, sia per quelle sulle persone.

 

 

Foto di copertina: Saumya Khandelwal per il New York Times