Monet, Roma. Un grande successo per la mostra Monet inaugurata il 19 ottobre 2017 e prorogata fino al 3 giugno 2018 presso il complesso del Vittoriano, curata da Marianne Mathieu e prodotta e organizzata da Gruppo Arthemisia in collaborazione con il Musée Marmottan Monet di Parigi.
Oscar-Claude Monet nacque a Parigi il 14 novembre del 1840, ancora bambino si trasferì a La Havre in Normandia con la famiglia e qui ebbe inizio la storia di uno degli artisti più noti e apprezzati dal grande pubblico. Una vita legata a doppio filo con l’arte, dagli studi di belle arti e i corsi di disegno di Jacques-Francois Ochard, curatore del museo di Le Havre, fino alle grandi tele realizzate nella sua villa di Giverny, quelle che forse più di tutte rappresentano l’artista ma anche l’uomo, che Monet scelse di tenere di tenere per sé fino alla fine della sua vita, donate, nel 1966, dal figlio Michel Monet al Musée Marmottan di Parigi, le stesse tele raccolte dall’esposizione romana.
All’interno dell’Ala Brasini ci si ritrova da subito immersi, nel vero senso della parola, dalla pittura di Monet, sulle pareti del corridoio d’ingresso sono proiettate opere dell’artista per un effetto davvero avvolgente che guida il visitatore verso l’esposizione vera e propria. Nella prima sala sono esposte opere realizzate a La Havre, la carriera artistica di Claude Monet inizia infatti come caricaturista, attività nata per passare il tempo tra i banchi di scuola e copiando le vignette del noto giornale francese Le Figaro. I soggetti sono ripresi dalla borghesia cittadina ma anche dalla famiglia del pittore, pare sia infatti una vecchia zia quella rappresentata nel disegno della Vecchia normanna (1857) che apre la mostra.
Un altro lato dell’artista che viene sottolineato è sicuramente uno dei più personali, quello del Monet non solo pittore ma anche padre. Ritroviamo infatti sulle pareti ritratti privati, Jean e Michel Monet, ancora bambini, in opere dalle quali il padre non volle mai separarsi. Anche nei ritratti è evidente come il vero interesse dell’artista non sia per la reale fisionomia del soggetto, quanto più per l’armonia e la resa dei colori.
Il titolo della seconda sezione della mostra “Monet cacciatore di soggetti” si deve allo scrittore Guy de Maupassant che così lo definì data la sua passione per i viaggi alla ricerca di nuove impressioni.
Possiamo qui riconoscere i morbidi profili della Val de Creuse, con le sue colline rosa che Monet rappresentò più e più volte dando così inizio alla sua passione per le serie volte a rappresentare non tanto il soggetto quanto i cambiamenti dovuti alla luce su di esso, come anche i paesaggi liguri di Dolceacqua, dove Monet, definito figlio del nord, scoprì la vera luce del sud. Un tema introdotto proprio nella rappresentazione di Dolceacqua (1884) è quello del ponte, che tante volte tornerà protagonista nelle sue opere successive come simbolo pittorico, diagonale che attraversa tutta la tela.
Ma è dal piano superiore che si riesce ad entrare nel vero mondo di Claude Monet, quel mondo che l’artista aveva ricreato nei giardini della villa di Giverny, acquistata nel 1890 nella quale già da tempo risiedeva con la compagna, e poi moglie, Alice Hoschedé. Fiori e piante sono ovunque nelle tele esposte, ma spesso è lo stagno il vero protagonista della scena, l’acqua, sempre in movimento e i riflessi della luce in essa non potevano non attirare l’attenzione dell’artista sempre intento a cogliere l’attimo con la sua pittura an plein air.
Sono presenti Emerocallidi (1914-1917), Il ponte giapponese (1918-1919) e numerose raffigurazioni delle famose ninfee alle quali Monet si era appassionato dopo averne viste di colorate, novità assoluta nel mondo occidentale, in occasione dell’esposizione universale di Parigi del 1889, ma anche alcuni schizzi preparatori, molto rari considerati i metodi artistici del pittore.
E il percorso continua, Il salice piangente, il Ponte giapponese, vengono rappresentati in vari momenti della giornata, principalmente all’alba e al tramonto dati i problemi agli occhi dell’ormai anziano Monet, ed è così che i colori si accendono sulla tela in un “giardino di colori ancor più che di fiori” come lo immaginerà Marcel Proust, fino ad arrivare alla grande tela Le rose (1925-1926), l’ultima realizzata. Dimensioni di questa portata erano da sempre riservate a temi storici o religiosi, Monet qui vi rappresenta un soggetto semplice, con colori semplici, che però racchiude in sé stesso il senso effimero della vita, la bellezza e la fragilità dell’esistenza.
La mostra si conclude con tre grandi pannelli tra i quali Ninfee (1917) e Glicini (1919-1920). Su suggerimento dell’amico Georges Clemenceau, politico e statista francese (primo ministro dal 1906 al 1909 e dal 1917 al 1920), Monet realizzerà infatti un ciclo di pannelli monumentali, per il quale dovrà far costruire uno studio nella sua abitazione date le misure troppo estese per la pittura an plein air, con soggetto il giardino di Giverny, che il pittore André Masson definirà la Cappella Sistina dell’impressionismo.