“La nostra indagine conferma come la facilità con cui si possono effettuare i resi nel settore del fast-fashion, quasi sempre gratuiti per il cliente, generi impatti ambientali nascosti e molto rilevanti”. Greenpeace.
Vestiti comprati e restituiti più volte, percorrono fino a 10 mila km tra l’Europa e la Cina, senza costi per l’acquirente e con spese irrisorie per l’azienda produttrice, ma con enormi danni ambientali.
Questo è quanto emerge dall’indagine condotta dall’Unità Investigativa di Greenpeace Italia che per quasi due mesi, in collaborazione con la trasmissione televisiva Report, ha tracciato i viaggi compiuti da alcuni capi d’abbigliamento del settore del fast fashion acquistati e reso gratuito tramite piattaforme di e-commerce.
Tutti i risultati dell’inchiesta, anticipati in parte nella trasmissione di Report andata in onda domenica 11 febbraio su Rai 3, sono stati pubblicati da Greenpeace Italia in un rapporto dal titolo “Moda in viaggio. Il costo nascosto dei resi online: i mille giri del fast-fashion che inquina il pianeta”.
“La nostra indagine conferma come la facilità con cui si possono effettuare i resi nel settore del fast-fashion, quasi sempre gratuiti per il cliente, generi impatti ambientali nascosti e molto rilevanti“, dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. “Mentre alcune nazioni europee hanno già legiferato per arginare o evitare il ricorso alla distruzione dei capi d’abbigliamento che vengono resi al venditore, lo stesso non può dirsi per la pratica dei resi facilitati, che incoraggia l’acquisto compulsivo di vestiti usa e getta, con gravi conseguenze per il pianeta“.
I risultati dell’indagine Greenpeace
Per condurre l’indagine, sono stati acquistati 24 capi d’abbigliamento del fast-fashion sulle piattaforme e-commerce di otto tra le principali aziende del settore: Amazon, Temu, Zalando, Zara, H&M, OVS, Shein e ASOS. Prima di effettuare i resi, Greenpeace e Report hanno nascosto un localizzatore GPS in ogni vestito, riuscendo così a tracciarne gli spostamenti, scoprire il mezzo di trasporto usato e studiare la filiera logistica dei venditori.
In 58 giorni, i pacchi hanno percorso nel complesso circa 100 mila chilometri attraverso 13 Paesi europei e la Cina. Mediamente, la distanza percorsa dai prodotti per consegna e reso è stata di 4.502 km. Il tragitto più breve è stato di 1.147 km, il più lungo di 10.297 km. Il mezzo di trasporto più usato è risultato il camion, seguito da aereo, furgone e nave. I 24 capi di abbigliamento sono stati venduti e rivenduti complessivamente 40 volte, con una media di 1,7 vendite per abito, e resi per ben 29 volte. A oggi, 14 indumenti su 24 (pari al 58%) non sono ancora stati rivenduti.
Esaminando le singole aziende, tutti i capi di abbigliamento di Temu sono stati spediti dalla Cina, hanno percorso oltre 10 mila chilometri (principalmente in aereo) e, a oggi, nessuno risulta rientrato nelle disponibilità del venditore dopo il primo reso. Due capi di abbigliamento di ASOS hanno viaggiato, in media, per oltre 9 mila chilometri transitando per ben 10 Paesi europei. ASOS, Zalando, H&M e Amazon sono in cima alla classifica per numero medio di rivendite: 2,25 volte. Mentre il 100% dei capi resi a Temu, OVS e Shein non è ancora stato rivenduto.
La collaborazione con la start up INDACO2 ha consentito di stimare anche le emissioni prodotte dal trasporto e dal packaging dei capi d’abbigliamento: l’impatto ambientale medio del trasporto di ogni ordine e reso corrisponde a 2,78 kg di CO2 equivalente, emissioni su cui il packaging incide per circa il 16%. In media, per il confezionamento di ogni pacco sono stati usati 74 g di plastica e 221 g di cartone. Prendendo come esempio l’impatto di un paio di jeans (del peso medio di 640 g), il trasporto del capo ordinato e reso comporta un aumento di circa il 24% delle emissioni di CO2. Il costo medio del carburante per il trasporto, d’altra parte, è stimato in 0,87 euro.
Fast Revolution, un movimento per combattere la fast fashion
Sempre nel corso della puntata di Report di domenica 11 febbraio, è stata intervistata Orsola de Castro, fondatrice nel 2027 di Fast Revolution, un movimento che vuole spingere le aziende del fast fashion a dichiarare l’origine dei materiali, le condizioni di lavoro, l’impatto ambientale.
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