Finora, i livelli di Pfas non erano ancora stati analizzati per i dpi utilizzati con la pandemia.
Covid: dall’inizio della pandemia tutto il mondo ha imparato a utilizzare quotidianamente le mascherine, allo scopo di prevenire la diffusione del virus SARS-CoV-2. Il loro corretto smaltimento dopo l’utilizzo è un obbligo che tutti dovrebbero fare proprio, a causa dell’alta concentrazione di microplastiche nei materiali con cui vengono realizzate. Fino ad oggi, però, ben poco si sapeva sui Pfas utilizzati per la produzione di mascherine, e il sospetto che potessero essere dannose poteva venire a causa delle tante sostanze perfluoroalchiliche utilizzate per respingere i fluidi.
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Finalmente, è arrivato uno studio, pubblicato su Environmental Science & Technlogy Letters. Si tratta del primo lavoro che prova a quantificare i Pfas contenuti nelle mascherine e la scoperta dei ricercatori della Oregon State University ci deve assolutamente confortare. Con la tecnica della spettrometria di massa, infatti, i ricercatori hanno analizzato nove tipi differenti di mascherine: una chirurgica, una FFP2, sei mascherine riutilizzabili in tessuto e una mascherina resistente al calore, che viene data in dotazione ai vigili del fuoco in gran parte del mondo.
In tutti i tipi di mascherine, tranne quella resistente al calore, sono stati trovati bassi livelli di Pfas, molto al di sotto della soglia d’allarme. Per quanto riguarda la mascherina utilizzata dai vigili del fuoco, il rischio si concretizza solo quando questa viene indossata per dieci ore consecutive o in momenti di grande sforzo fisico. Nessun problema per la salute, quindi, ma neanche per l’ambiente: la stima è stata calcolata partendo dall’assunto che chiunque disperda le mascherine nell’ambiente invece di smaltirle correttamente. Resta però l’allarme microplastiche, ed è proprio per questo che, dopo ogni utilizzo, le mascherine devono essere gettate nei rifiuti indifferenziati (anche se purtroppo questo non avviene sempre e le nostre strade lo dimostrano).