Utilizzare le proprietà delle lucciole per individuare i contaminanti, come i PFAS, nelle acque. La ricerca dell’Università di Bologna.
Individuare i contaminanti nelle acque grazie alla bioluminescenza. Da questa idea è partita la sperimentazione, sviluppata nel Dipartimento di Chimica ‘Giacomo Ciamician’ dell’Università di Bologna, partner scientifico Consorzio C.E.R. – Canale Emiliano Romagnolo, che ha condotto a straordinari risultati. In particolare, gli scienziati hanno pensato alle lucciole. Utilizzare le proprietà di questo insetto luminoso può aiutare a trovare le sostanze chimiche che inquinano le acque, come i PFAS. Le lucciole infatti, si illuminano per una reazione chimica.
L’idea dunque è di prelevare il loro gene e di trasferirlo in una cellula batterica, di lievito o si mammifero, riprogrammandola per illuminarsi con colori diversi in presenza di altrettanti inquinanti (PFAS, metalli pesanti, pesticidi, tossine, interferenti endocrini, ecc.).
Le cellule oggetto della ricerca però sono OGM (Organismo Geneticamente Modificato), quindi in Italia sono utilizzabili solo in laboratorio. Nell’ambiente, le cellule possono essere sostituite da batteri marini naturalmente bioluminescenti per individuare la tossicità oppure, per le analisi sul campo, possono essere riprodotte tramite sistemi di trascrizione e traduzione in vitro. Per l’analisi e la lettura dei dati poi, si possono usare supporti in carta, economici e sostenibili, interfacciabili con lo smartphone.
Bioluminescenza per trovare gli inquinanti, i benefici in agricoltura
A giovare di questa ricerca, sarebbe in primo luogo il settore dell’agricoltura. Lo stesso agricoltore infatti, potrebbe controllare le risorse idriche che utilizza.
“La ricerca dell’Università di Bologna apre scenari nuovi ad ulteriore garanzia della qualità del cibo italiano, perché potrebbe mettere lo stesso agricoltore nelle condizioni di monitorare costantemente lo stato della risorsa idrica utilizzata “, spiega Massimo Gargano, Direttore Generale di Anbi, l’Associazione Nazionale dei Consorzi di Gestione e Tutela del Territorio e delle Acque Irrigue.
Questo metodo dunque, sarebbe sicuramente utile per il monitoraggio delle sostanze inquinanti nelle acque reflue, che sono ricche di sostanze chimiche e di particelle inquinanti come le microplastiche.
“È evidente l’importanza di tale ricerca per la salute pubblica soprattutto ora che all’ordine del giorno c’è l’utilizzo delle acque reflue in agricoltura. In Italia, un freno all’uso di tale risorsa è infatti l’incapacità della gran parte dei depuratori di intercettare le microplastiche, inquinanti in forte aumento e lesivi della salubrità alimentare: un sistema di alert, unitamente all’indispensabile certificazione di un ente terzo, aumenterebbe significativamente le garanzie per i consumatori”, commenta Francesco Vincenzi, Presidente dell’Anbi.
Visti i crescenti livelli di inquinamento delle acque che si stanno registrando in Italia negli ultimi tempi – come evidenziato nel convegno organizzato da Greenpeace “PFAS, stop ai veleni” – il rischio è di ritrovarsi corsi d’acqua luminescenti e dei colori dell’arcobaleno. Il monitoraggio però, potrebbe accelerare l’adozione di misure volte a ridurre l’inquinamento da sostanze chimiche.