Il prezzo della fast fashion chi lo paga realmente? A 10 anni dalla tragedia di Rana Plaza facciamo il punto con Valeria Mangani, presidente Sustainable Fashion Innovation Society.
Oggi, 24 aprile, sono 10 anni dalla tragedia di Rana Plaza. Nell’aprile del 2013 a causa di un cedimento strutturale crollò un complesso commerciale di otto piani a Dacca, in Bangladesh.
Le vittime accertate, in gran parte donne impiegate nel settore tessile, furono 1.134 mentre i feriti estratti dalle macerie oltre 2.500.
Dopo quell’incidente fu stipulato un accordo per garantire maggiore sicurezza e tutela per i lavoratori ma oggi si parla ancora di fast fashion. Ma cosa è cambiato a 10 anni da quella strage? Lo abbiamo chiesto a Valeria Mangani, presidente Sustainable Fashion Innovation Society.
“La grande consapevolezza, purtroppo, è sempre in seguito a grandi tragedie. Vista la presenza di crepe strutturali, l’edificio era già stato evacuato ai piani inferiori, banche ed altri negozi erano chiusi. Mentre ai piani alti, dove c’era la manifattura quella più becera, dove nessuno vedeva, purtroppo c’erano operai e operaie che hanno continuato a lavorare. Dentro quella fabbrica tantissimi grossi brand multinazionali commissionavano le loro cose. – afferma Valeria Mangani a TeleAmbiente – C’è sempre questo problema del prezzo a ribasso. Se questo non ci fosse da parte dei grandi brand, se tutti fossero pagati da sempre equamente per quello che è il loro lavoro per fabbricare queste magliette e pantaloni, queste cose non sarebbero successe”.
Cosa possono fare i consumatori per combattere la fast fashion?
“Noi adesso, consumatori consapevoli, vogliamo farci una domanda quando vediamo una magliettina a 5 euro? Come fa ad arrivare dall’India, dal sud est asiatico, dalla Cina, una maglietta il cui prezzo finale è così basso? Come è possibile che sia stata cucita con del cotone organico, con una sarta che abbia cucito quelle maniche, quell’indumento, e che sia stata pagata equamente? Impossibile. – ci spiega Valeria Mangani – Queste sono cifre che si ottengono solo se sfrutti i lavoratori, se usi materia prima a basso costo, tinture tossiche, e tutti quegli agenti chimici che fissano il colore e che non fanno assolutamente bene alla nostra pelle”. E aggiunge: “Vi ricordate tutti i pigiamini impregnati di formaldeide, quelli che una decina di anni fa facevano avere shock anafilattici a tanti bambini infilati in questi pile con la cerniera davanti e non riusciamo a respirare. Si tratta di agenti che arrivano da acquisti online o da mercatini. Non hanno etichette a norme CE“.
Le aziende che percorso devono seguire per una transizione ecologica?
“Da gennaio 2024 entrerà in vigore la responsabilità estesa del produttore (EPR), una normativa europea con la quale le grosse aziende, per ora quelle al di sopra dei 500mln di fatturato, dovranno iniziare ad entrare nei parametri e tracciare dove si approvvigionano tutti i coloro che fanno parte della filiera produttiva della moda. In questo modo tantissime situazioni verranno allo scoperto“, aggiunge Valeria Mangani e conclude: “Quello che bisogna fare adesso è progettare tutto ciò che sarà il futuro della moda in maniera circolare“.