Home Attualità Coronavirus, primo possibile caso tra gli indigeni della Foresta amazzonica

Coronavirus, primo possibile caso tra gli indigeni della Foresta amazzonica

Un indigeno della tribù Maribo ha iniziato ad accusare i primi sintomi dell’infezione. Gli esperti temono che la diffusione del virus possa aprire le riserve a violenze e attività illegali verso le comunità.

Un indigeno della tribù Marubo ha mostrato i primi sintomi del coronavirus dopo essere entrato in contatto con un gruppo di nord americani in Atalaia do Norte, la capitale del distretto municipale locato al confine tra Brasile, Perù e Colombia. L’uomo ha lavorato come guida turistica e secondo fonti giornalistiche e si è recato in ospedale il 20 marzo dopo i primi sintomi.

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Finora, secondo le autorità sanitarie, l’uomo non è stato ospedalizzato ma è stato messo in isolamento nella casa che condivide con altri 14 individui. Due delle sue figlie hanno febbre, tosse e dolori al petto, i sintomi dell’infezione. Il sistema sanitario locale non è in grado di analizzare i tamponi, che sono stati inviati a Manaus, a circa 1100 km di distanza. Tuttavia la famiglia non riceverà subito i risultati: Atalaia do Norte non ha contatti stradali con il resto del Brasile. Per raggiungerla sono necessari tre giorni di viaggio in barca o tre ore in aereo ma i voli attualmente sono tutti sospesi. La diffusione del coronavirus ad Atalaia do Norte potrebbe avere conseguenze disastrose. La municipalità infatti è l’unico modo con il quale si può accedere alla Javari Valley Indigenous Territory: la riserva è tra le più importanti del paese e casa di 26 diversi gruppi di indigeni. Il governo non è in contatto con questi gruppi: l’agenzia degli indigeni FUNAI ha deciso di isolare queste comunità nel 1988 per proteggerle e può contattarle solamente in caso di necessità estreme. Questa politica ha avuto successo in passato e ha permesso ai gruppi di sopravvivere e prosperare in pace.

Tuttavia gli esperti temono per gli effetti che potrebbe avere il coronavirus in queste comunità. Yara Marubo di Union of Indigenous Peoples of Javari Valley (UNIJAVI) ha spiegato: “La presenza del coronavirus nella Javari Valley sarebbe devastante. Esiste una frontiera aperta, con la libera circolazione delle persone, tra Atalaia do Norte e il Perù. Ci sono più controlli con la Colombia, ma anche così, le persone vanno e vengono”. Ad inizio mese molti antropologi temevano che FUNAI stesse lavorando per indebolire la regola sugli accessi, rendendo più facile per gli estranei entrare in queste aree. Negli ultimi 30 anni il contatto è stato autorizzato solamente dal General Coordination of Isolated and Recently Contacted Indians (CGIIRC) ma il 13 marzo FUNAI ha cambiato le procedure, permettendo ai suoi 39 coordinatori regionali di poter fornire le autorizzazioni. Il cambiamento è stato presentato da FUNAI come positivo, sostenendo che permetteva “azioni essenziali per garantire la sopravvivenza dei gruppi isolati”, fondamentale in caso la pandemia si espandesse nell’area.

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ONG come la Society for the Anthropology of Lowland South America (SALSA) hanno espresso preoccupazioni sui direttori regionali, “spesso scelti dalla politica ma senza adeguate competenze”. Le associazioni sui diritti degli indigeni hanno fatto pressioni su FUNAI affinché rivedesse la misura, poi revocata il 20 marzo. Una diffusione del coronavirus nei villaggi indigeni non potrebbe accadere in un momento peggiore: il servizio sanitario brasiliano, fortemente indebolito dal Presidente Jair Bolsonaro, difficilmente potrebbe essere in grado di gestire l’emergenza. Il sistema sanitario indigeno viene gestito dal Special Secretariat of Indigenous Healthdal (SESAI), una sezione del Ministero della Salute e secondo Antenor Vaz, ex dipendente di FUNAI, il servizio ha lavorato correttamente fino a fine 2018 grazie al programma Mais Medicos, che ha portato centinaia di medici cubani nelle parti più remote del Brasile. Tuttavia Bolsonaro ha spinto verso cambiamenti che il Governo cubano ha ritenuto inaccettabili, ponendo fine al programma.

L’assenza di medici qualificati, unita all’inaccessibilità delle aree, rende difficile inviare tamponi, ventilatori ed altri materiali agli indigeni. SESAI inoltre a causa dei tagli del governo non ha i fondi per fornire trasporti via aerea o navale. L’agenzia ha chiesto agli indigeni di isolarsi in caso di sintomi ma questo è difficile per una popolazione che ha nella condivisione parte della propria cultura. Secondo SESAI il governo assumerà altri 5,811 medici per contrastare la pandemia ma non è chiaro in quanti ne quando arriveranno nei villaggi. Inoltre si teme che il caos causato dal virus possa permettere alla criminalità organizzata di entrare illegalmente in quelle terre e prenderne il territorio. “Le comunità sono minacciate da due fronti. Il primo riguarda dalle compagnie che vogliono utilizzare quei territori per l’agricoltura e per l’estrazione. L’altro riguarda le missioni evangeliche. FUNAI dovrebbe inviare l’esercito per contrastare taglialegna, pescatori e ladri e non trovare un pretesto per favorire il contatto”.

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Carlo Marès, ex presidente di FUNAI, è preoccupato dal linguaggio utilizzato da Bolsonaro nei confronti delle comunità indigene e teme che il governo approfitterà della pandemia per aprire le comunità indigene all’agricoltura e l’industrializzazzione. “È orribile, il solo pensarci mi fa stare male. Ma se il governo vuole davvero sterminare gli indiani, questa epidemia gli offre una possibilità“.