
Clima. Se la Cop25 di Madrid, la conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici, ha fallito la sua missione, la colpa è degli Stati Uniti.
Non è un caso infatti che dell’elenco dei Paesi additati dal Wwf come principali responsabili (India, Giappone, Brasile, Arabia Saudita) facciano parte gli “amici” del presidente americano Trump: Narendra Modi e Shinzo Abe, Jair Messias Bolsonaro, Mohammed bin Salman.
“I Paesi più inquinanti – denuncia il Wwf – si sono sottratti alla responsabilità di ridurre le emissioni di gas serra” e continuano “ad anteporre i propri interessi alla crisi planetaria”.
Un elenco destinato a diventare più lungo.
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Al club dei menefreghisti, più che negazionisti, dell’ambiente si aggiungerà la Gran Bretagna di Boris Johnson, appena sganciata dai vincoli europei.
Il Wwf però ha dimenticato di aggiungere all’elenco dei responsabili del fallimento, la Cina, leader insieme all’Ue nella lotta al riscaldamento globale.
Va detto poi al Vertice europeo del 12 e 13 dicembre, la stessa Unione Europea aveva mostrato la sua parte debole: i 27 non hanno trovato un’intesa unanime sull’obiettivo 2050 “emissioni zero” a dire no, la Polonia che ancora (soprav)vive di carbone.
La Cop25 era un seguito della riunione da cui scaturirono nel 2015 gli accordi di Parigi, l’insieme d’intese sul clima più importante finora raggiunto a livello internazionale: indica gli obiettivi Paese per Paese di riduzione delle emissioni inquinanti che contribuiscono al riscaldamento globale e, quindi, ai cambiamenti climatici.
La riunione di Madrid nasceva sotto una cattiva stella.
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Trasferita quasi in extremis da Santiago del Cile, per i fermenti sociali nel Paese latino-americano, aveva caratteristiche inevitabilmente interlocutorie: era la prima del genere dopo l’attuazione dell’uscita dagli accordi di Parigi degli Usa, decisa da tempo, ma effettiva da novembre; e coincideva con il dibattito, non conclusivo, nell’Ue sull’aggiornamento degli obiettivi europei.
La spinta dei giovani dei Fridays for Future e della loro leader Greta Thunberg, l’eco ad essa data dai media e l’ipocrita attenzione dei leader avevano avallato attese e speranze.
Ma una gran parte degli addetti ai lavori erano arrivati a Madrid già pensando a Glasgow, dove l’anno prossimo ci sarà la Cop26, il cui percorso d’avvicinamento passa per l’Italia ed è purtroppo facile prevedere che ci sarà chi presenterà quei passi preparatori come decisivi, creando le premesse d’ulteriori delusioni e qualunquismi.
Ora, puntare il dito per il fallimento di Madrid sugli Stati Uniti aventiniani e sul- la loro nefasta influenza soprattutto su India, Brasile e Arabia Saudita, è corretto, ma è anche facile e sterile, perché da New Delhi, Brasilia e Ryad non ci si può oggi attendere nulla di meglio e di diverso; tantomeno da Washington, almeno per un anno (e forse per cinque).
Le contraddizioni forse risolvibili sono quelle europee.
Appuntamento a giugno, quando i leader dell’Unione sono convinti di potere addomesticare le resistenze polacche, dopo esserci già riusciti con quelle ceche e ungheresi e cinesi.
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La Cina, che è il Paese con maggiori emissioni al mondo, ha indicato il 2030 come anno di inizio della riduzione delle proprie emissioni: un obiettivo che appare ora ambizioso e difficilmente raggiungibile, perché Pechino, ai temi dei green deal, sta attuando un suo black deal.
“La fame di energia elettrica del quasi miliardo e mezzo di cinesi è impressionante – osserva Pietro Quercia, specialista del settore – e per questo il Paese si sta affidando pesantemente al carbone come fonte energetica, la più inquinante tra le fonti fossili. Solo nell’ultimo anno (da gennaio 2018 a giugno 2019) ha aumentato la produzione di elettricità da carbone di circa 43 Gw, pari a 16 volte la centrale italiana più potente. Contemporaneamente, invece, il resto del mondo ha ridotto di 8 Gw la propria dipendenza da questa fonte”.
E la situazione è destinata a peggiorare. Uno studio del Global Energy Monitor, una Ong che segue i progetti energetici a fonti fossili, rileva che Pechino programma altri 148 Gw di capacità a carbone praticamente pari all’intero insieme di centrali a carbone di tutta l’Unione europea.
Paradossalmente, nota Quercia, la Cina è al primo posto anche per gli investimenti in energia pulita: dal 2010, ha investito 758 miliardi di dollari, facendo meglio in volume complessivo dell’Ue, che si piazza seconda con 700 miliardi, e staccando di gran lunga l’India, ferma a 90 miliardi.