Home Moda Moda sostenibile, vestirsi rispettando l’ambiente. I consigli dell’esperta Camilla Mendini

Moda sostenibile, vestirsi rispettando l’ambiente. I consigli dell’esperta Camilla Mendini

L’industria della moda è una tra le più inquinanti al mondo. “Ci siamo abituati ad avere accesso a capi di vestiario a medio/basso costo e a quei prezzi c’è qualcun altro che sta pagando al posto nostro, a partire dall’ambiente. Ma ci sono alternative, come la moda sostenibile”. Intervista a Camilla Mendini “Carotilla”, graphic designer.

VIDEO INTERVISTA 

Informazione green attraverso i social media: come sensibilizzare gli utenti verso comportamenti più sostenibili? In questo campo si fanno strada i green influencer. Molte sono donne e tra queste abbiamo incontrato Camilla Mendini, in arte Carotilla, graphic designer ed esperta di moda sostenibile.

Camilla ha 33 anni, è nata a Verona e vive a New York da 5 anni. Ama definirsi con la parola “sostenibilità“. Creatrice del brand Amorilla Clothing, attraverso i suoi profili social Camilla ha iniziato a far conoscere la sua linea di abiti spiegando perché è meglio indossare un capo sostenibile e quanto le nostre scelte, anche nel vestirci, devono essere fatte in maniera attenta e consapevole per non avere un impatto negativo sull’ambiente.  E’ stata eletta tra le 10 Top Italian green Influencer del 2019 con la menzione speciale per Lifestyle.

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I suoi abiti raccontano storie e tradizioni di diversi paesi, esaltando la produzione locale e artigianale. Ma nei progetti di Camilla non c’è solo la moda. Grazie ai social media e alle persone che la seguono, ha deciso come green influencer di avvicinarsi anche ad altre realtà e abitudini di consumo per sensibilizzare il suo pubblico verso pratiche sempre più sostenibili. 

Adesso vivi a New York, ma la tua esperienza all’estero è iniziata molto prima. Nelle città in cui hai vissuto il tema della sostenibilità come viene affrontato? Si è più indietro o avanti rispetto all’Italia?

Ho iniziato a vivere all’estero prima con l’erasmus a Parigi, ma conta che erano tanti anni fa quando il tema della sostenibilità non era ancora così sentito. Poi ho vissuto poi in Australia per qualche mese, una terra piena di natura dove c’è un altissimo rispetto verso l’ambiente e verso la razionalizzazione dell’acqua avendone poca. E adesso che vivo negli Stati Uniti da 5 anni posso dirti che secondo me l’Italia è più avanti. Negli anni 70-80 gli americani sono stati i primi a introdurre il riciclo, poi ho come l’impressione che abbiamo un po’ perso la strada. Solo per farti un esempio, è entrato in vigore a New York dal primo marzo 2020 il divieto di utilizzare sacchetti plastica che in Italia è cosa avvenuta molto tempo prima. Ma la differenza maggiore che noto è nelle persone, nell’approccio alla coscienza ecologica che secondo me è molto più sentita in Italia.

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Aziende e sostenibilità, è sempre più importante applicare questo concetto nell’ambito della produzione ed è da qui che è partito il tuo brand “Amorilla” nel campo della moda sostenibile. Come è nata l’idea e che risposta hai avuto dai consumatori.

Amorilla nasce con l’idea di creare un marchio che fosse altamente artigianale, che non si legasse per forza ad un solo paese ma come collezione che nasce dall’amore verso una tradizione tessile presente in qualsiasi posto del mondo. C’è un’esaltazione della procedura artigianale e della produzione locale, un’attenzione verso l’ambiente e verso i lavoratori. Amorilla nasce per unire il mio interesse verso la moda sostenibile che ormai da 3 anni porto avanti tramite approfondimenti personali (ci sono alcuni testi e documentari ma ancora troppo pochi), l’essere consumatrice sostenibile e la mia voglia di mettere la creatività in un lavoro nuovo.

 

 

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Quali sono gli elementi che rendono e definiscono un capo “sostenibile”? E a cosa devono stare attenti i consumatori quando acquistano un capo (oltre all’etichetta nella quale non viene molto spesso indicato tutto). 

La moda è l’industria tra le più importanti e inquinanti di quelle che ci sono al mondo. Spesso nei consumatori questa idea non è associata alla moda che è vista solo come divertimento. In realtà la maggior parte dei vestiti che compriamo non sono stati prodotti con un’attenzione verso l’ambiente, verso i lavoratori coinvolti nel processo produttivo, è questo perché in realtà non è richiesto e anche perché, con l’avvio della fast fashion negli anni 90, ci siamo abituati ad avere accesso a capi di vestiario a medio/basso costo e ovviamente per avere quei prezzi c’è qualcun altro che sta pagando al posto nostro, a partire dall’ambiente.

La moda sostenibile nasce in contrasto a questo tipo di moda, anche se è ancora molto di nicchia. Prova a pensare alla tecnica della sabbiatura dei jeans impiegata nella moda normale,  altamente pericolosa per le persone che la fanno perché inalano la sabbia (pratica da poco vietata ma che alcuni portano avanti in maniera illegale). Pensiamo anche al lavaggio dei vestiti, quelli che compriamo e che con i nostri cicli di lavatrici continuano ogni volta a rilasciare sostanze tossiche per l’ecosistema e nei nostri mari.  E’ un sistema molto complesso che ci coinvolge non solo come consumatori ma proprio come attori. Possiamo fare delle scelte di shopping più consapevole o anche quando andiamo a lavare o a dismettere i capi. Quante volte compriamo e  magari non utilizziamo effettivamente i vestiti e poi li buttiamo via?

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Parliamo della Generazione Z (quella di Greta) da cui è partita la tua idea di lanciare sui social la campagna #1dress7days.  Che riscontro hai avuto?Spesso i più giovani tendono a scegliere merce a basso costo, quindi fatti di fibre sintetiche, e a cambiare abiti frequentemente.

Ho letto qualche mese fa sull’Huffington Post nella sezione italiana che per ogni ragazzo che combatteva per i valori di Greta ce n’era un altro che invece comprava a basso costo vestiti con un unico interesse, ovvero che fossero belli una volta fotografati e postati sui social. Ho creato #1dress7days e per una settimana ho voluto indossare sempre lo stesso capo, un maglione, per far capire che è normale rimettere lo stesso capo e anche come abbinarlo in maniera differente. Devo dire che le persone a cui mi rivolgo sui social media e che mi seguono sono soprattutto della mia fascia d’età qui, tra i 25 e i 40. Si tratta di persone che non hanno vissuto la fast fashion come qualcosa di normale, a differenza dei ragazzi e ragazze della generazione Z. Noi abbiamo visto cosa c’era prima, abbiamo conosciuto un altro modo di vestire, un tipo di moda molto diversa. Per i ragazzi oggi la moda è quella a basso costo, non importa che duri ma serve solo per dare un’apparenza diversa. Spero che crescendo, dal momento che la moda sostenibile sta diventando sempre più forte e se ne parlerà sempre di più, anche questa generazione possa avvicinarsi a questo modo di vestire.

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Altro argomento di cui si parla tanto è quello della plastica e del packaging. Tempo fa in uno dei tuoi video avevi mostrato la tua spesa da italiana in America, poi hai voluto rilanciarlo mostrando come fare la spesa senza plastica. Quanto è stato difficile e cosa hai potuto constatare? 

Quando ho creato il primo video sulla spesa da italiana a New York in realtà è abbastanza piaciuto perché c’è questa curiosità di vedere come sono i supermercati americani. Ma proprio nei commenti a quel video centinaia di persone che mi dicevano: ma quanta plastica, hai comprato solo plastica! Era qualcosa che avevo constatato anche io. Qui ci sono packaging veramente per qualsiasi cosa, tutto è preparato per persone che hanno poco tempo e poca voglia. Quando ho voluto far vedere come era possibile fare una spesa senza plastica è stato per me un po’ difficile e non rispecchia la spesa che riesco a fare ogni settimana. In America fare una spesa plastic-free, o meglio a New York in zona New Jersey dove sono io, non è affatto facile. Sebbene ci siano posti che vendono prodotti freschi e sfusi costano quasi il doppio. Il problema resta sempre il prezzo: chi vuole mangiare biologico, quindi vuole essere sostenibile e fare un passo in più, deve pagare di più.

Green influencer donne, sembrano essere di più e in campi diversi, dalla moda al makeup, dalla cucina al turismo sostenibile. Secondo te come mai? Pensi che questa rivoluzione di economia circolare possa partire dalle donne?

Secondo me non è un caso. Noi donne siamo sicuramente più sensibili, più materne e come tali cerchiamo sempre una soluzione meno impattante, meno violenta. Trovare una soluzione più green, noi donne siamo portate verso questo.  E come persone che vivono i social media ho notato che, specie Instagram, è molto femminile, quindi ci sono molte più donne rispetto agli uomini. Il fatto che ci siano molte più donne sui social media unito al fatto che siamo molto più sensibili verso questi argomenti spiega perché siamo noi donne a portare avanti l’idea green. 

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Quali progetti oltre ad Amorilla e in quali altri campi in futuro pensi di avvicinarti ora che che ti sei fatta conoscere e che sei diventata un punto di riferimento per chi ti segue?

Il percorso che sto portando avanti sui social media è partito dalla moda ma per vari motivi, perché era per me più familiare, perché conosco cosa c’era prima della fast fashion e grazie a mia mamma che mi ha sempre aiutato a capire come sono fatti e come scegliere i capi di qualità. Ora sto sviluppando e cercando di coinvolgere in questo percorso la mia esperienza del quotidiano, quindi la spesa, i prodotti per la casa, i prodotti beauty. Come dico sempre, sui social media è un percorso che io faccio sempre con le persone che mi seguono perché tantissimi consigli, come quello della plastica supermercati, vengono da loro e io sono sempre attenta a captare le necessità o comunque consigli di che mi segue

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