
“La sfida principale per un giornalista è di renderla personale. Questo lavoro è andare oltre ed è particolarmente urgente farlo ora che l’ambiente sta morendo. Questa è la mia responsabilità”. L’editore a capo della sezione ambiente del Guardian, Jonathan Watts, racconta quale ruolo deve avere un giornalista e come trattare tematiche urgenti come quella ambientale.
“Certi giorni sono pieno di terrore, certe notti ho problemi nel dormire. Ma non cambierei mai il mio lavoro per nessun altro. Come editore ambientale del Guardian mi occupo di tutto, dall’Amazzonia all’Artico, su quello che è il rapido deterioramento delle meraviglie del mondo. Insieme ai miei colleghi indago su chi è colpito, chi è da colpevolizzare e chi sta lottando duramente. Questo è allo stesso tempo deprimente ed eccitante.
L’umanità non ha mai affrontato un problema più grave del collasso dell’ecosistema ambientale. Nessuno può sentirsi libero da questa responsabilità. Tutti abbiamo qualcosa da perdere, in particolare chi ha più potere. La sfida è grande ed urgente. Ma nonostante tutto il cambiamento sta avvenendo”, scrive Jonathan Watts, editore a capo della sezione ambiente del Guardian.
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“La sfida principale per un giornalista è di renderla personale. Senza di questo, la scienza diventa astratta, il problema diventa troppo grande e diventa difficile interessarsi a posti lontani e ad altre specie. Senza di questo, l’ambiente si trasforma in un argomento per accademici, politici e bianchi della classe media, quando dovrebbe essere riconosciuto come la causa maggiore di ineguaglianza, conflitti e ingiustizie. Non è un’altra materia, è un prisma da cui si dovrebbe guardare il mondo”.
“Iniziando come reporter in Asia negli anni 90, ho scritto inizialmente di politica, sport e finanza, argomenti considerati meritevoli perché cambiano velocemente, sono concentrati sugli esseri umani e hanno mercato. Ma viaggiando come corrispondente estero è diventato sempre più difficile ignorare come il degrado dell’aria, dell’acqua e del suolo stiano minacciando le persone, le altre specie e il futuro delle nostre generazioni. Questi temi difficilmente finiscono in prima pagina, ma sono spesso alla base di tensione politica, instabilità economica e disturbi psicologici.
Visitando il Tibet per un servizio su una nuova ferrovia in sviluppo ho scoperto che il maggior problema era la distruzione della terra, la desertificazione e lo scioglimento dei ghiacci. In Xinjiang e Mongolia, ho riscontrato tensioni etniche ma ho realizzato quanto queste dipendessero dall’espansione in massa delle operazioni minerarie e dall’influsso sui minatori. Sullo Yangtse mi sono unito ad una spedizione di biologi marini che hanno dichiarato che l’estinzione dei delfini Baiji dipendesse dall’inquinamento, dal traffico del fiume e dai danni idroelettrici.
Nel 2010 ho viaggiato in America Latina, sperando di trovare un modello di sviluppo meno distruttivo ma ho trovato tensioni simili in Amazzonia, Patagonia e nell’Atlantico. La maggior parte della corruzione e dell’instabilità politica era connessa all’estrazione di risorse e i progetti di infrastrutture. I media si focalizzano sulle scintille locali di protesta, sugli scandali e le bancarotte, ma messe insieme in una prospettiva globale è possibile ricavare un modello più ampio di sfruttamento e di evidenti falle nel sistema. I singoli articoli non colgono questo ed è importante raccogliere più materiale possibile e collaborare con le altre organizzazioni come Polluters, Green Blood, Age of Extinction e Defenders”.
Ancora più importante è tirar fuori il tema ambientale dal ghetto mediatico in cui si trova, trattato come una cosa separata e con un vocabolario specifico che crea una distanza ancora maggiore. Il primo utilizzo della parola “ambiente” nel suo senso moderno è stato nel 1828 da Thomas Carlyle, presa in prestito dal francese “environ”, usato per tradurre dal tedesco “umgebung” in una traduzione di Goethe.
In quel periodo, il termine era usato per indicare paesaggi, lo spirito e la cultura che ha creato l’umanità in contrasto con i meccanismi automatici della rivoluzione industriale. Ma era anche avvolto dentro l’Illuminismo occidentale tra se stessi e gli altri. L’ambiente è cosi diventato qualcosa di esterno, piuttosto che qualcosa di cui l’umanità faceva parte. Come ha detto più avanti Albert Einstein “l’ambiente è tutto ciò che non sono io”. Questo era un modo semplice di descrivere come ogni individuo sente sé stesso come parte del proprio universo, ma suggerisce che la natura è qualcosa di separato che possiamo modificare senza esserne modificati. Che possiamo distruggere senza pagarne un prezzo. Carlyle ed Einstein sarebbero terrificati da quanto lontano è andato questo dualismo.
“Negli ultimi 50 anni, l’ambiente è stato considerato come il contrario dell’economia umana. Maggiore è il gap, più periferico e spaventoso diventa l’ambiente. Questo è evidente in politica, economia e nei media. Ogni paese ha un Ministro dell’ambiente, anche se oggi rappresentano sempre la parte più debole dell’ambiente. Ogni grande azienda ha l’ufficio per la sostenibilità ambientale anche se raramente possono fare scelte importanti. Ogni giornale e stazione televisiva ha giornalisti che trattano di tematiche ambientali, ma sono rilegati ad una minor importanza dei colleghi che si occupano di politica ed economia. Le persone possono criticare questo sistema ma politici, aziende ed editori risponderanno che si adattano alle esigenze del pubblico. Gli elettori, i consumatori e lettori possono provare un senso di colpa nei confronti dell’ambiente ma poche volte la minaccia è considerata una priorità. Fino a poco fa era facile spostare il problema ai margini della società”, ha continuato Watts nel suo articolo.
Questo è cambiato lo scorso anno. Il problema da marginale è diventato centrale, grazie alla lunga campagna creata da Greta Thunberg, dagli scioperi, da Extinction Rebellion e Sunrise Movement. È grazie ad essi che i continui avvertimenti degli scienziati suscitano maggiore interesse, come il report dell’IPCC. Ed ancora di più i record di temperature, incendi, tempeste siccità e specie in declino mostra che stiamo giungendo al limite. Non ci sono altri margini.
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“Per riflettere la distruzione causata dalla crisi, dobbiamo stravolgere la nostra normale forma di reporting. Il Guardian ha risposto al cambiamento riflettendo l’urgenza degli scienziati, dando maggior preminenza al clima, focalizzandosi su aree dove il cambiamento è necessario, includendo i produttori di carbon fossili e i sistemi finanziari, legali e politici che li supportano”.
“Credo che sia solo l’inizio e non solo per il Guardian. In futuro, spero che il giornalismo di tutte le organizzazioni e i campi metta in discussione il proprio ruolo, ponendo maggior attenzione alla relazione uomo-natura. Questo non vuol dire seguire i populisti strappando via le fondamenta della conoscenza e tuffandosi nel mondo delle fake news. La scienza rimane il sapere. La precisione deve essere sempre l’obiettivo. Ma la minaccia è più che evidente, deve toccare le corde emozionali. E deve essere presa in considerazione in ogni luogo”.
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La soluzione per il futuro secondo Jonathan Watts può essere raggiunta solamente mettendo insieme il personale e il globale: “E’ più facile a dirsi che a farsi ma è questo l’obiettivo che abbiamo davanti. In realtà è sempre stato il lavoro del giornalista fare questo legame. Dopo tutto, è quello che vuol dire media. Ma questo lavoro è andare oltre ed è particolarmente urgente farlo ora che l’ambiente sta morendo. Questa è la mia responsabilità. Questo è quello che mi tiene sveglio la notte. Questo è quello che mi fa sentire vivo”.