Home Moda Fast fashion Che fine fanno gli abiti invenduti? Ecco cosa hanno in comune catene...

Che fine fanno gli abiti invenduti? Ecco cosa hanno in comune catene di fast fashion e brand di lusso

Ma perché le aziende distruggono gli abiti invenduti? Non parliamo solo di brand di fast fashion ma anche di noti brand dell’industria del lusso.

La sovrapproduzione di vestiti ha creato una crisi ambientale globale, con rifiuti tessili che si accumulano nelle discariche, fonti d’acqua contaminate da coloranti tossici e grandi quantità di energia consumate nella produzione.

Non tutto quello che viene poi prodotto viene anche venduto. Ogni anno 40 miliardi di vestiti e scarpe vengono distrutti senza essere mai stati indossati. La sovrapproduzione porta le aziende a distruggere i capi invenduti piuttosto che applicare degli sconti o riutilizzarli.

Tra le norme previste con l’introduzione del Regolamento Ecodesign in Europa, viene stabilito il divieto diretto di distruzione di prodotti tessili e calzature invendute.

Questo riuscirà davvero a fermare la cattiva gestione degli invenduti e delle rimanenze?

Ma perché questa pratica di distruggere l’invenduto viene fatta dalle aziende? E attenzione, non parliamo solo di brand di fast fashion, la moda usa e getta a basso costo, ma anche di noti brand dell’industria del lusso.

Lo abbiamo chiesto a Silvia Gambi, Giornalista e fondatrice di Solo Moda Sostenibile.

Abbiamo parlato poi con Salvatore Pariota, amministratore delegato di un’azienda che si occupa di acquisto e vendita stock abbigliamento e accessori, DIVERGENT srl e di come è per le aziende liberarsi dai capi invenduti e dalle rimanenze rivolgendosi agli stocchisti.

Lusso e invenduto distrutto, i brand finiti sotto accusa

Tra le aziende di lusso accusate di bruciare prodotti nuovi e senza difetti, una fece particolarmente discutere.

Parliamo del marchio britannico di lusso Burberry, che nel 2017 bruciò merci invendute per un valore di 28,6 milioni di sterline. La notizia provocò molta indignazione, ma non stupì molto chi lavorava nel mondo della moda.

Nel 2018 venne fuori che nei due anni precedenti Richemont, che controlla marchi di lusso come Cartier e Montblanc, aveva distrutto orologi per un valore di 437 milioni di sterline per evitare che si deprezzassero o finissero nel mercato nero.

Una pratica, quella di distruggere capi, comune per i marchi di lusso, un’azione utile per proteggersi dalla vendita di falsa ed attuata per una questione di “immagine”. Eliminando le eccedenze, infatti, si evitano i deprezzamenti o gli sconti e si riesce comunque a mantenere l’esclusività del marchio.

Abbiamo contattato alcuni brand del mondo del lusso per comprendere meglio le motivazioni di queste scelte, se è davvero così e come necessariamente dovranno cambiare visto l’introduzione del nuovo regolamento europeo che vieta tale pratica. Non abbiamo ricevuto alcuna risposta, noi attendiamo per capire in che modo verrà gestito l’invenduto e in che modo tuteleranno le loro produzioni.

Il nuovo regolamento Ecodesign introduce anche il divieto diretto di distruzione di prodotti tessili e calzature invendute. Una necessità che parte dal presupposto che ci sono aziende in Italia e in Europa che, piuttosto che scontare i prodotti non venduti, preferiscono distruggerli e poi riciclarli? Tra le novità del regolamento entro il 2030 ogni prodotto tessile venduto nei suoi confini dovrà avere un passaporto digitale.

Questo fermerà le pratiche scorrette delle aziende? Lo abbiamo chiesto, nel Magazine dedicato al latro oscuro delle sneakers, alla deputata PD Elenora EVi.

Dove finiscono, invece, i nostri abiti usati? In Ghana. Dal 2023 è la discarica di vestiti più grande al mondo: ne arrivano 15 milioni ogni settimana. La causa principale? Il fast fashion.

Come ci vestiamo, quali abiti compriamo e quali marchi preferiamo può fare la differenza.

L’attenzione dei media sull’etica nella moda è stata catalizzata da uno degli incidenti più gravi nella storia dell’industria tessile: il crollo dell’edificio Rana Plaza in Bangladesh, a Dacca nel 2013. In quell’incidente tragico, oltre 1000 lavoratori persero la vita e più di 2500 rimasero feriti.