Giovedì 24 aprile ricorreranno dodici anni dal crollo dell’edificio Rana Plaza in Bangladesh

A 12 anni dal crollo del Rana Plaza qualcosa è cambiato, ma non abbastanza

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“Basta con le promesse vuote”, l’appello ai brand della Clean Clothes Campaign a 12 anni dalla tragedia del crollo del Rana Plaza.

Giovedì 24 aprile ricorreranno dodici anni dal crollo dell’edificio Rana Plaza in Bangladesh, una tragedia che costò la vita ad almeno 1.138 persone, in gran parte lavoratrici e lavoratori tessili impiegati nelle cinque fabbriche ospitate nello stabile. Sebbene nel 2013 i marchi di moda avessero dichiarato che questa tragedia sarebbe stata un catalizzatore per il cambiamento nelle loro catene di approvvigionamento, i progressi reali si sono limitati alle questioni regolate da accordi vincolanti.

Il crollo del Rana Plaza non è stato un incidente isolato, ma il risultato di problematiche sistemiche, profondamente radicate che affliggono l’industria dell’abbigliamento. Nonostante fosse stato ordinato lo sgombero dell’edificio il giorno precedente, la spietata pressione delle catene di fornitura globali impose la prosecuzione del lavoro. I salari da fame spinsero molte lavoratrici a rientrare sotto la minaccia della sospensione dello stipendio, mentre la mancanza di libertà di associazione ha impedito loro di opporsi collettivamente.

Per paura delle ripercussioni, subito dopo il crollo i marchi fecero promesse ambiziose. H&M, ad esempio, si impegnò a garantire un salario dignitoso lungo tutta la sua catena di fornitura entro cinque anni. Tuttavia solo la pressione di un milione di firme convinse i marchi a firmare un accordo vincolante sulla sicurezza degli edifici. Dodici anni dopo, le fabbriche in Bangladesh sono effettivamente più sicure, ma i salari continuano ad essere da fame e la libertà sindacale repressa. È ora che tutti i diritti delle lavoratrici siano garantiti da leggi e accordi vincolanti!

Il crollo dell’edificio Rana Plaza portò l’attenzione dei media sull’etica nella moda. La Campagna Abiti Puliti fondata negli anni ’90, è la più grande alleanza del settore abbigliamento di sindacati e di organizzazioni non governative. Le loro campagne si focalizzano sul miglioramento delle condizioni lavorative nel settore dell’abbigliamento. A 12 anni dalla peggiore tragedia del Rana Plaza, le fabbriche sono davvero più sicure? A spiegarcelo in un’intervista rilasciata a TeleAmbiente da Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale Campagna Abiti Puliti.

 

Sicurezza sul lavoro: prevenzione e risarcimento per infortuni e decessi

I maggiori progressi sono stati registrati nel campo della sicurezza delle fabbriche. Tuttavia, nonostante il riconosciuto successo dell’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh – legalmente vincolante e firmato da oltre 260 marchi nel mondo – alcuni brand dell’abbigliamento e dei tessili per la casa continuano a fare affidamento su controlli volontari inefficaci o a beneficiare dei risultati dell’Accordo senza contribuire.

Tra questi ci sono Kontoor Brands (Wrangler, Lee), Decathlon, Amazon, IKEA, Walmart, Urban Outfitters e Tom Tailor, che continuano a mettere a rischio la vita delle proprie lavoratrici.

Per salvaguardare i progressi ottenuti, è fondamentale che i firmatari dell’Accordo affrontino l’eccessiva influenza dei datori di lavoro nel sistema di attuazione e governance del programma del Bangladesh, il RMG Sustainability Council (RSC). Questo è stato sottolineato dalla Clean Clothes Campaign e da altri firmatari in un recente memorandum.

“Dodici anni dopo il crollo del Rana Plaza, è vitale che la sicurezza dei lavoratori resti una priorità. Le commissioni per la sicurezza nelle fabbriche, formate grazie all’Accordo, ora sono più deboli a causa del RSC e un emendamento al codice del lavoro del 2022 ha ridotto i diritti dei lavoratori nelle commissioni e aumentato il potere dei proprietari delle fabbriche. Questo va annullato“, Salahuddin Shapon, presidente della Bangladesh Revolutionary Garment Workers Federation.

“Oggi, il ruolo dell’Accordo è più cruciale che mai, soprattutto di fronte ai nuovi rischi legati alla crisi climatica, come lo stress da calore e il pericolo di inondazioni. I marchi firmatari devono garantire che il programma ispettivo affronti attivamente questi rischi e si estenda in modo più capillare lungo l’intera catena di fornitura”, Kamrul Hassan, segretario generale dell’Akota Garment Worker Federation.

Infortuni e decessi non sono stati del tutto eliminati ma dal 2022 le lavoratrici e i lavoratori feriti e le famiglie dei deceduti possono finalmente richiedere un risarcimento attraverso un progetto pilota contro gli infortuni sul lavoro (EIS). Rashadul Alam Raju, segretario generale della BIGUF, ha dichiarato: “Il progetto EIS dovrebbe diventare legge per garantire un accesso automatico e immediato al risarcimento per tutti i lavoratori o le loro famiglie”.

Porre fine ai salari da fame e alla repressione delle lavoratrici

Da anni le aziende fanno promesse altisonanti sui salari dignitosi, ma nelle fabbriche del Bangladesh le lavoratrici continuano a percepire salari da fame. Negli ultimi dodici anni, due tentativi di revisione del salario minimo sono falliti: i marchi si sono rifiutati di sostenere le richieste dei lavoratori, nonostante le cifre proposte fossero appena sufficienti per superare la soglia di povertà. Entrambi i processi si sono conclusi con aumenti minimi, seguiti da proteste represse con violenza. Decine di migliaia di lavoratrici sono ancora accusate sulla base di capi d’imputazione infondati. La Clean Clothes Campaign, attraverso la sua campagna in corso, ha contribuito all’annullamento di 9 procedimenti di massa.

“Dalla tragedia del Rana Plaza, i marchi hanno aumentato di poco – e in alcuni casi persino ridotto – i prezzi pagati per i prodotti dal Bangladesh. Dopo anni di promesse mancate, solo impegni vincolanti da parte dei brand possono garantire una vita dignitosa ai lavoratori».
Questo deve andare di pari passo con una più forte tutela legale del diritto fondamentale all’organizzazione sindacale. I marchi devono adottare una politica di tolleranza zero verso ogni forma di repressione sindacale nelle loro catene di approvvigionamento. L’urgenza è evidente: appena due anni fa, un leader sindacale è stato picchiato a morte dopo essere uscito da una fabbrica, e la maggior parte dei brand coinvolti non ha fatto nulla per risarcire la famiglia, né per prevenire il ripetersi di simili tragedie“, Babul Akhter, segretario generale della BGIWF e presidente del Consiglio di IndustriALL Bangladesh.

Solo obblighi legali possono garantire un cambiamento duraturo

Lo scorso anno, nell’anniversario del crollo del Rana Plaza, il Parlamento Europeo ha approvato la Direttiva sulla Due Diligence per la Sostenibilità delle Imprese (CSDDD): un primo passo verso catene di valore globali libere da abusi dei diritti umani e del lavoro, e di cui le aziende possano essere legalmente responsabili. Purtroppo, meno di un anno dopo, questa normativa rivoluzionaria è sotto attacco, poiché la Commissione Europea sta proponendo di indebolirla attraverso il “Pacchetto Omnibus”, Babul Akhter, segretario generale della BGIWF e presidente del Consiglio di IndustriALL Bangladesh.

Secondo Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale di Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, “la proposta della Commissione Europea attacca la direttiva nei suoi aspetti di maggiore impatto per la protezione dei diritti umani e del lavoro nelle catene globali di fornitura. Se non contrastata, di fatto, renderà la legge quasi innocua perché ridurrà gli obblighi di vigilanza delle imprese ai soli fornitori di primo livello e renderà praticamente impossibile l’accesso alla giustizia per le vittime di violazione nelle fabbriche. Un regalo ai grandi marchi in nome della semplificazione e della competitività che produrrà in realtà solo deregolamentazione e impunità”.

A tal proposito, proprio oggi la Campagna Abiti Puliti, insieme a Impresa2030, ha illustrato durante un’audizione del Comitato permanente per i diritti umani nel mondo della Camera dei Deputati le ragioni della propria opposizione al pacchetto Omnibus. Parallelamente, si sta muovendo anche a livello europeo, insieme alla rete Clean Clothes Campaign e ad altre ONG, per contestarne sia il merito sia il metodo, e per chiedere alle istituzioni di salvaguardare l’integrità della direttiva.

“Il crollo del Rana Plaza è avvenuto perché i marchi hanno ignorato le condizioni di lavoro insicure, i salari da fame e la repressione sindacale presenti nelle loro catene di fornitura. I dodici anni successivi hanno dimostrato che un vero cambiamento è possibile solo quando il comportamento delle aziende è guidato da obblighi legali solidi. Per questo è essenziale che la direttiva sulla dovuta diligenza in materia di sostenibilità delle imprese (CSDDD) non venga indebolita”, Kalpona Akter, fondatrice del Bangladesh Centre for Worker Solidarity.

Con la fine del precedente governo influenzato dai datori di lavoro, si apre la possibilità di un nuovo inizio per i diritti dei lavoratori. I sindacati e le ONG in Bangladesh – inclusi molti membri della rete CCC – hanno svolto un ruolo chiave all’interno di diversi comitati consultivi che presto presenteranno le loro raccomandazioni. La Clean Clothes Campaign invita il governo ad interim ad ascoltare i comitati per la riforma del lavoro e i diritti delle donne, affinché le leggi del Bangladesh inizino finalmente a tutelare gli interessi delle lavoratrici.l

La piattaforma online Fashion Checker

La Campagna Abiti Puliti con la piattaforma online Fashion Checker mostra dove vengono fabbricati i nostri vestiti e le condizioni di lavoro in cui vengono prodotti. Lo strumento, finanziato dall’Unione europea, permette a lavoratori, attivisti e consumatori di conoscere dati reali sulle catene di fornitura dei più grandi marchi della #moda.

Tra i brand intervistati il 93% non ha fornito prove concrete del proprio impegno a pagare salari dignitosi nella propria catena di fornitura, il 63% non ha fornito informazioni sui nomi e gli indirizzi dei propri fornitori o ha rispettato solo parzialmente i requisiti del Transparency Pledge. Ce lo spiega, Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale Campagna Abiti Puliti.

 

 

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